Questa è la terza avventura per l’investigatrice Stella Spada, apparsa sulla scena con “L’Ombra della Stella”, ritrovata poi in “Terra alla Terra”. Questo romanzo si svolge nella periferia estrema di Bologna, in un enorme palazzo grigio cemento, in una zona trascurata e degradata. In questo grande condominio, troppe persone negli ultimi anni sono rimaste vittime di incresciosi incidenti. Stella viene chiamata da una inquilina per indagare su queste morti, apparentemente non collegate tra loro. E Stella indaga, in quel suo modo così personale, fino alla soluzione del mistero. Nel suo percorso si appoggia al commissario Marconi, con il quale ha un rapporto di amore e odio, ma che le è indispensabile per le informazioni che le occorrono nell’indagine. Ritroviamo anche la precedente proprietaria dell’agenzia investigativa, Silvia, uccisa da Stella nel primo romanzo, che continua ad apparire accanto a lei nei momenti meno prevedibili. Molti sono i personaggi che ruotano attorno a Stella, portati all’estremo nella loro caratterizzazione, facenti parte del sottobosco di una grande città.

Grigio come il sangue

Dettagli prodotto

  • Copertina flessibile: 250 pagine
  • Prezzo cartaceo: 14,00
  • Editore: Damster
  • ISBN-13: 978-8868101800

Primo capitolo

1.

Non mi ricordo da quanto tempo sono qui. Qui dove poi? Mi guardo intorno. È un’operazione che ho già fatto almeno qualche centinaio di volte negli ultimi minuti, ma il risultato non è soddisfacente. Potrei essere in un deserto, ma il terreno sotto i miei piedi è solido. Potrei essere in un parcheggio molto ma molto grande, solo che non c’è neanche una macchina. Sotto i miei piedi il suolo è grigio e duro come cemento, sopra la mia testa il cielo è dello stesso colore, la stessa aria che respiro mi pare grigia e densa come nebbia. Però mi sento bene, non ho freddo, né caldo, né fame. Non sono stanca e non ho nemmeno male di testa, questa è la cosa che mi stupisce più di tutte. Sono calma, non mi preoccupa affatto essere qui in mezzo al niente a fare… cosa devo fare? Se sono venuta fin qui un motivo ci sarà. Cammino senza fare rumore verso altro grigio. Il mio passo è leggero, non lascio neanche le impronte. Mi guardo i piedi scalzi, poi risalgo. Sono nuda. A parte una grossa fasciatura che mi copre parte dell’addome e del busto. Al centro una larga macchia rossa. Nemmeno questo riesce a preoccuparmi, mi viene solo in mente una riflessione effimera: devo rinnovare lo smalto sulle unghie dei piedi, nell’alluce destro è un po’ saltato via. È un pensiero veramente scemo, ma prendere contatto con il mio corpo mi dà soddisfazione. Guardo avanti e sorrido, senza un motivo. C’è una linea all’orizzonte, finalmente qualcosa in mezzo al niente. Corro per raggiungerla, e quando arrivo riesco a stento a frenare la mia corsa. Non è una linea qualunque, è un bordo. Per l’esattezza il bordo del grigio sul quale cammino. Mi affaccio a vedere sotto cosa c’è. Non vedo il fondo, solo una grigia e infinita parete che scende perpendicolare al suolo verso il nulla e si perde nel grigiore in lontananza. Per fortuna che mi sono fermata, altrimenti ora starei scendendo in una grigia caduta senza fine. Mi sdraio, mi affaccio e rimango a guardare in basso. Non un rumore, nemmeno il sibilo del vento. Niente. Dovrei preoccuparmi ma non ci riesco. Sono calma nonostante tutto. Pure troppo calma. Decisamente da questa parte non si prosegue. Mi alzo per tornare indietro. Ho lasciato una macchia rossa sul pavimento, unica nota di colore in tutto questo grigio. È bella però, sembra quasi una rosa in un giardino. Sorrido alla stupidità dei miei pensieri, mi giro e comincio a camminare. Mi sembra di cogliere un movimento. Ma sì, c’è una donna che arriva correndo. Sono così felice di vedere qualcuno che comincio a sbracciarmi:
«Ehi, ehi, sono qui, mi vede?» Non sembra proprio, continua a correre. E dire che mi passa vicina, tanto vicina che potrei quasi toccarla. «Non corra da quella parte! Si fermi! C’è il precipizio lì in fondo!» Ma questa pare non sentirmi affatto. Continua a correre vestita solo di un grembiule da cucina. Sta piangendo, chissà perché.
«Si fermi! Attenta, si fermi, la prego!» Non si ferma. Arriva al bordo e continua nella sua folle corsa di morte. Si lancia verso l’abisso infinito. Mi affretto verso di lei, nella vaga illusione di poterla salvare. Mi aspetto di vederla fluttuare nell’aria grigia e densa. Riesco solo a vedere i suoi occhi neri e sgomenti che mi fissano mentre precipita sempre più veloce, fino a diventare un puntino e sparire nel grigio nulla. Continuo a rimanere affacciata qualche istante, poi mi rialzo. Ora non sono più tanto calma. Il cuore mi batte forte nel petto, sembra quasi voglia uscire dallo sterno, il fiato mi brucia nella gola come se invece dell’aria stessi respirando la lava di un vulcano. Le lacrime della donna cadendo sul terreno grigio e freddo hanno fatto nascere cespugli di rose rosse. Bellissime. Non hanno foglie, solo fiori. E spine. Una fila di macchie rosse che arriva sul bordo del precipizio. Ora sto piangendo anch’io. Sto malissimo e ho paura, una fottutissima paura di morire. Mi porto le mani alla gola, è sempre più difficile respirare. Tossisco, sputo, rantolo.
«Dottore! Chiamate un dottore, presto. La mamma sta male!»
Chi ha parlato? Quale mamma? Non riesco a pensare, sono troppo impegnata a cercare di fare entrare aria nei miei polmoni. Sempre che il cuore non esploda prima. Nel frattempo vomiterei anche volentieri.
Mi sento afferrare, girare, il tubo mi viene tolto dalla gola. Finalmente! Aria! È meraviglioso respirare a pieni polmoni.
«Ha cominciato a respirare in autonomia, un ottimo segno.»
«Sta dicendo che è fuori pericolo?»
«Non sto dicendo niente, non vorrei dare false speranze. Però ci sono delle possibilità, e questo è più di quanto ci aspettassimo, data l’entità delle ferite.»
Ma di chi stanno parlando questi? Mi importa poco in fondo. Ora che sono tornata a respirare anche il cuore pare tornato a battere con un ritmo accettabile. Che spavento mi sono presa. Magari posso anche riposarmi un pochino. Mi stendo e guardo il cielo grigio e uniforme. Potrei pure dormire, perché no, tanto non ricordo di avere nessun impegno. Chiudo gli occhi.
Era una bellissima bambina, coccolata e vezzeggiata da tutti, soprattutto da suo padre. Visse splendendo di luce propria per tutta l’infanzia, poi venne l’età in cui si cominciò ad accorgere che essere una femmina non comportava poi tutti questi vantaggi. I suoi fratelli maschi potevano uscire, rientrare tardi, avevano il motorino, la macchina, cose che a lei venivano promesse, poi posticipate, posticipate, e non arrivavano mai.
“Certo, ma loro sono maschi”. Dal primo momento che sentì pronunciare questa frase cominciò a sentirsi un po’ meno splendente, e la fulgida luce della sua stella cominciò ad affievolirsi, fino a diventare un buco nero. Iniziò a trasgredire, a fare cose proibite, anche se non erano divertenti. La cosa essenziale era attirare l’attenzione sul fatto che lei poteva fare qualsiasi cosa, ma proprio qualsiasi. Maschio o femmina che fosse. Per fortuna però Stella era nata intelligente, cosa che le ha permesso di superare brillantemente tutti gli anni scolastici, e soprattutto le ha permesso di frequentare pessime compagnie senza mai farsi coinvolgere in maniera irreversibile. Quando le sue frequentazioni passarono dallo spinello alle droghe pesanti lei prima continuò per un po’ con gli spinelli, poi passò ad altre amicizie. Così arrivarono gli anni dell’Università. In casa la si vedeva raramente, provocando le lacrime di sua madre e le urla di suo padre. Frequentava perlopiù appartamenti nella zona universitaria, abitati da studenti, nei quali rimaneva per giorni, finché non sentiva il bisogno di un bagno tutto per sé, o di un nuovo ragazzo. Durante gli anni dell’università non dormì mai più di due o tre ore per notte. Le serate trascorrevano in osteria, per strada, a sentire musica a casa di qualcuno, a fumare spinelli a casa di qualcun altro, a cantare per i vicoli del centro di Bologna. Le poche volte che passava per casa sua erano sempre tragedie: di solito l’accoglieva sua madre che piangendo le diceva “Ormai sei una ragazza perduta”. Il significato di questa frase le rimase sempre piuttosto oscuro. Poi arrivava suo padre con la solita frase “Ti sei tarpata le ali”. I suoi genitori ormai le sembravano due marziani che si esprimevano in una lingua sconosciuta
Nonostante i più foschi presagi dei suoi genitori Stella si laureò in Economia e Commercio con un voto discreto, senza nemmeno andare fuori corso, poi cominciò il lavoro di invio curriculum alle Società, e la durissima trafila dei colloqui. Stella odiava particolarmente presentarsi a questo tipo di colloqui. Il fatto di stare davanti ad una persona che in pochi minuti aveva la pretesa di giudicarla era una cosa che la faceva veramente innervosire, e di questo ne risentiva in maniera drastica l’andamento del colloquio stesso.
Poi ci fu “quel” colloquio, in una società di Software. Uscendo dai loro uffici Stella era sicura che non ci avrebbe mai più rimesso piede. Niente era andato per il verso giusto recandosi lì aveva tamponato l’auto che la precedeva, che si era fermata improvvisamente nell’immissione in una rotonda, e naturalmente era arrivata al colloquio molto in ritardo e molto incazzata. Arrivare in ritardo ad un colloquio di lavoro di solito è causa di esclusione immediata dalle liste delle persone da assumere, e questo Stella lo sapeva bene. Quindi, con la consapevolezza di essere già scartata a priori e di stare solo perdendo il suo tempo, aveva dato risposte seccate e sarcastiche al suo esaminatore, il quale le era risultato per giunta piuttosto antipatico e indisponente. Infatti rimase veramente stupita quando la richiamarono per un secondo incontro. Questa volta vi si recò con un anticipo di quasi un’ora, per essere sicura di arrivare puntuale nonostante gli inconvenienti che poteva incontrare sul suo cammino, e infatti rimase un’ora ad aspettare nel salottino all’ingresso. Quindi la convocarono per un terzo incontro, con il Direttore Generale. La prima volta che si era recata in quegli uffici si era comportata da vera stronza, quindi cominciò a convincersi che era proprio di questo che avevano bisogno. E se volevano questo, lei era perfettamente in grado di fornirglielo, a livelli eccelsi.
L’incontro con il Direttore Generale fu infatti positivo, e venne assunta come sua assistente.
L’inizio del lavoro d’ufficio rappresentò anche l’inizio del declino delle nottate in giro per i vicoli del centro di Bologna in compagnia degli eterni studenti universitari. Non era più possibile dormire due ore e presentarsi alle 8,30 puntuale in ufficio vestita, stirata e sorridente. Non era nemmeno pensabile passare la notte in casa di amici fino all’alba: doveva farsi una doccia, indossare vestiti puliti, truccarsi, e per fare questo doveva avere il suo bagno, il suo armadio, e la sua camera a disposizione. Poco alla volta cambiò il suo stile di vita, rientrò a casa sua, e cominciò a frequentare i colleghi dell’ufficio, giovani rampanti che aspiravano a rapide quanto improbabili carriere.
Sua madre ringraziò più volte la Madonna di S. Luca per avere messo un po’ di sale in zucca alla sua unica figlia così ribelle. Andò a messa nella basilica tutte le domeniche mattina per un anno, percorrendo a  piedi i due chilometri e mezzo di portico che si inerpicano su per il Colle della Guardia, sgranando un rosario. Suo padre, uomo ateo nonché estremamente concreto, fece semplicemente finta di niente, tirando un colpo di spugna sui cinque anni di università della sua disgraziata figliola, come se non fossero mai esistiti. Non ci furono feste per il ritorno del figliol prodigo, non si uccise il vitello grasso. Semplicemente, in famiglia tutto tornò normale come prima, e nessuno parlò mai più del periodo “strano” di Stella.


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